Ogni essere umano ha il diritto di vivere il proprio sogno...



.:'":. Io Sono KiKi Koy .:'":.
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lunedì 22 marzo 2010

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Non è l’agonia a rendere il dolore insopportabile, ma il fatto di non sapere quando finirà.

Le mie statuine preferite (part 4)








Captain America - Civil War - Diamond Select Toys
Civil War è una miniserie a fumetti di sette numeri, scritta da Mark Millar e disegnata da Steve McNiven, pubblicata dalla Marvel Comics. Il primo albo è uscito nel maggio 2006 e si è conclusa, con dei ritardi, nel febbraio 2007.

I miei disegni (part 3)
















I miei disegni (part 2)
















mercoledì 17 marzo 2010

Trappola di carne


Incubo ad occhi aperti

Mi svegliai, ma non ero nel mio caldo e confortevole letto, era buio e sotto di me sentivo il freddo pavimento che mi faceva gelare le ossa. Non riuscivo a vedere nulla, i miei occhi impiegarono un po’ di tempo per abituarsi all’oscurità.
Mi trovavo in una piccola stanza spoglia, con una sola finestra, le imposte erano chiuse, ma quel poco di luce che entrava mi bastò per capire che ero perduta.
Era giorno, di questo ero certa perché la luce era luminosa e disegnava lunghe strisce su una delle pareti e lì vidi un letto, privo di lenzuola, sembrava la branda di una prigione.
«Bene, finestra chiusa, branda triste…mi trovo in una prigione!»
Mi ritrovai a parlare da sola, immobile, seduta sul pavimento.
Penserete sia un comportamento stupido, ma al momento non sapevo che altro fare, inoltre, se ora sono qui a raccontarvelo, tanto stupida non devo esserlo.
Iniziai a sentirmi profondamente angosciata, non riesco nemmeno a descrivere quel susseguirsi di emozioni; mi alzai in piedi e pensai: dove mi trovavo prima di risvegliarmi in quel posto? Ero nella mia macchina, nel parcheggio sotto gli uffici dove lavoro. Che ore erano? Era sera, le sette passate, avevo fatto tardi, ed era già buio.
Chiunque mi avesse portata in quel luogo mi aveva sicuramente drogata, o Dio sa cosa, perché quando sono rinvenuta era giorno.
La testa mi faceva male, ma ero solo stordita e disorientata, per cui ho escluso che mi avessero tramortita con un colpo alla testa, e comunque sia non sarei rimasta priva di sensi per tutto quel tempo.
Non riuscivo a vedere nessuna porta, così iniziai a tastate le pareti con le mani, la poca luce che entrava non bastava ad illuminare tutto e un angolo della stanza era completamente buio. Fu li che trovai una porta, in basso c’era una finestrella, proprio come quelle che si usano in certe carceri per passare il cibo ai detenuti. La esaminai un po’ con le mani, ma servì solo a farmi sentire peggio, non si poteva aprire dall’interno.
«Diciamo pure addio a ogni speranza!»
Mi bloccai all’improvviso e mi voltai di scatto in direzione della finestra, la raggiunsi quasi con un balzo, mentre il cuore mi batteva a mille. Allora spinsi le imposte verso l’esterno: nulla! Cercai una maniglia o qualche altro modo per aprirla, ma niente da fare, toccandola mi resi conto che era sigillata.
Pensai a quanto fossi idiota, di certo chi mi rapì non si sarebbe dimenticato di chiudere per bene ogni via di uscita.
«Rapita. »
Ripetei più volte, iniziando ad indietreggiare fino a toccare il freddo metallo del letto. Mi sedetti raccogliendo la testa tra le mani. Inizialmente non piansi, da principio presi ad inveire contro il mondo intero e domandarmi perché fossi rimasta tra le nuvole fino a quel momento. Per Dio! Qualcuno mi aveva rapita!
Scoppiai in lacrime, tremavo, ero in trappola, e ora? Presa dall’agitazione e dalla paura fui colta da una crisi respiratoria, raramente mi era capitato in ventuno anni. Facevo fatica a respirare, singhiozzando tentavo di inspirare a fondo, ma lo sforzo era grande e il petto iniziava a far male. Più cercavo di respirare, più mi sentivo soffocare e più il dolore aumentava. Avevo il viso bagnato dalle lacrime, che cadevano sui pugni che tenevo stretti sulle ginocchia.
Mi alzai di scatto e presi a tirare calci e pugni alla porta, gridando con tutto il fiato che avevo in gola.
«Aiuto! Fatemi uscire! C’è nessuno?!»
Improvvisamente una voce si impose prepotente.
«Fermati! »
Mi irrigidii all’istante.
«Cosa credi di fare? Guarda che nessuno ti può sentire. »
Udii una risata metallica, sembrava la voce di un automa.
«Chi sei? Cosa vuoi da me?! »
Gridai terrorizzata. Non ricevetti nessuna risposta.
Ero esausta, anzi stravolta, e affamata. Mi buttai sul letto fissando il vuoto, in quel momento mi passarono mille pensieri per la testa, ma c’era una cosa che mi preoccupava quasi più della mia stessa sorte: il mio fidanzato.
Stavamo insieme da due anni e ci amavamo alla follia, avevamo iniziato e progettare di comprarci una casa, invece ora non sapevo nemmeno se per me ci sarebbe stato un domani.
«A quest’ora il mio fidanzato avrà allertato l’esercito! »
Gridai, sperando di intimorire il mio carceriere almeno un po’, ma non rispose nemmeno.
Mi guardai attorno e mi accorsi di una piccola spia rossa sull’angolo in alto, vicino alla porta. A quanto sembrava ero sotto sorveglianza e dovevano anche esserci un microfono ed un altoparlante da qualche parte.
Non mi aveva lasciato nulla, a parte i vestiti, e io impazzisco quando non posso sapere che ore sono, dovevo farmi più o meno un’idea guardando le strisce di luce sulla parete, andando a logica la mattina quando il sole è basso la luce è proiettata sulla parte alta del muro e sul soffitto, per poi scendere mano a mano che il sole inizia a levarsi.
Le strisce ora erano a mezza altezza.
Pensare al mio fidanzato mi rendeva estremamente nervosa, non poterlo sentire, essere in trappola in balia di chissà quale balordo! Ma che potevo fare? Ero tagliata fuori dal resto del mondo e non avevo alcun modo di comunicare con l’esterno, da fuori non giungeva alcun rumore, quindi era assai poco probabile che mi trovassi in un centro abitato.
Tra le altre cose, avevo paura di addormentarmi, troppi brutti pensieri mi passavano per la testa, tra i tanti il mio rapitore e i suoi loschi piani e dormire era davvero l’ultima delle mie preoccupazioni, ma stanca com’ero finii col crollare senza nemmeno accorgermene.
Mi svegliai di soprassalto, la stanza era buia più che mai, e con l’oscurità aumentavano le mie fobie. Era notte.
Ho sempre avuto una fervida immaginazione e tutto ciò che immaginavo, per me, era estremamente reale, pur sapendo che era solo frutto della mia mente contorta.
In tutta la mia vita, anche col caldo più torrido, non ho mai dormito senza avere almeno un lenzuolo addosso, per cui i pensieri più bislacchi e terrificanti ebbero terreno fertile, nella mia mente già profondamente scossa, come se la situazione in cui mi trovavo non fosse terribile di suo.
Sentivo mani che mi toccavano, infide e spaventose creature in agguato nel buio.
«Luce!»
Presi a gridare in preda al panico.
«Ti prego! Accendi la luce! Ho paura! Ti supplico!»
E luce fu, pallida e fioca, una piccola lampadina appesa al soffitto, che più che illuminare, generava un semplice alone luminoso. Era una semplice lampadina, ma per me fu come vedere il sole, la salvezza dalla pazzia.
Mi rannicchiai sul letto, tremando e piangendo sommessamente. Poco dopo udii dei passi, la finestrella della porta si aprì e il mio carceriere, probabilmente, vi fece scivolare attraverso un vassoio, richiudendola frettolosamente.
Ecco il mio primo pasto da prigioniera: patate arrosto, una coscia di pollo e una bottiglietta d’acqua. La cosa mi sorprese molto, perché avevano un buon sapore ed erano calde.
Perché tanta premura col cibo, se mi teneva rinchiusa in quel buco?
Prima la luce, poi il cibo. Che abbia un cuore, dopo tutto?
Dopo mangiato ebbi un altro problema e anche piuttosto urgente.
«Hey! Avrei bisogno di andare in bagno!»
In un primo momento non rispose.
«Mi stai ascoltando?! Non posso farmela addosso!»
Udii un rumore secco, era la serratura della porta che si apriva.
«Vai pure.»
Mi disse.
«Tanto non puoi fuggire. Controllo tutte le porte a distanza, per cui non provarci nemmeno. Non puoi uscire.»
Non risposi, mi alzai avvicinandomi lentamente alla porta.
«È in fondo al corridoio, proprio di fronte a te.»
Il corridoio era abbastanza ampio, non c’erano finestre. Era illuminato da una sola lampadina e vidi che c’erano altre quattro porte, oltre a quella della mia cella e quella del bagno, due a destra e due a sinistra.
La toilette era piuttosto piccola, ma pulita, e aerata da un piccolo condotto di aerazione, quindi fuggire da li era impossibile. C’era tutto il necessario: il water, il bidet, la doccia e il lavandino con uno specchio, ma non ebbi il coraggio di specchiarmi, non so perché, ma avevo paura di guardare il mio viso.
Controllai che non vi fossero telecamere anche li, altrimenti avrei preferito farmi scoppiare la vescica piuttosto che permettere a quel pazzo di violare la mia intimità.
Tornata nella mia gabbia senza sbarre, l’uomo mi domandò:
«La toilette era di tuo gradimento?»
«Si, grazie. La più confortevole che abbia mai visto!»
Il mio tono di sarcasmo non passò inosservato, prima di parlare ancora rimase in silenzio per qualche istante.
«Bene.»
Disse, non aggiunse altro. Probabilmente il mio tono lo aveva irritato, forse non si aspettava tanta arroganza da parte mia.
Da quando ero uscita dalla mia stanza e avevo visto le altre porte, c’era una domanda che premeva per uscire dalla mia bocca. Esitai un attimo, non sapevo se domandarglielo o meno, ma alla fine glielo chiesi:
«Cosa c’è oltre quelle porte?»
Ovviamente non ottenni nessuna risposta.
E ora? Non avevo sonno e non c’era nulla che potessi fare. Ero costretta a pensare, non si può far altro. Inevitabilmente il mio pensiero si rivolse al mio fidanzato. Chissà cosa stava facendo.
«Conoscendolo, avrà mobilitato l’esercito. Chissà dove cavolo mi trovo.»
Pensai.
«Chissà se mi troveranno. O magari mi credono morta! Ma no! Che dico! Eduardo sa che non sono morta, lui mi sta cercando e non si fermerà finché non mi avrà trovata!»
Il tempo passava inesorabilmente e io non facevo altro che passeggiare nervosamente da un angolo all’altro della mia triste prigione.
Improvvisamente la luce si spense e nell’aria umida della stanza echeggiò il mio sussulto.
«Riaccendila!»
Gridai, ma l’uomo non rispose. Udii dei passi provenire dal corridoio. Il mio carceriere era venuto a farmi visita. Premetti la schiena contro il muro e trattenni il fiato. C’era un inquietante silenzio, ma venne interrotto da uno strano sibilo, come quello del gas che fuoriesce da una bomboletta spray.
Poco dopo caddi a terra, priva di sensi.
Fu allora che il mio carceriere stabilì il primo vero crudele contatto, ma io in quel momento non potevo saperlo.
Sognai, sognai di fare l’amore con Eduardo, ma quando mi svegliai, il ritorno alla realtà fu un duro colpo. Il mio sogno fu tanto reale che la realtà mi parve un incubo.
Al mio risveglio ero sdraiata sul letto e la luce era di nuovo accesa. Mi sentivo tramortita e dolorante, proprio quel genere di dolore che non avrei mai voluto provare in vita mia. Ma no, non poteva essere. Tentavo si scacciare quel pensiero, quella nauseante sensazione. Mi rannicchiai, stringendo le ginocchia al petto e iniziai a piangere.
Non poteva essere successo davvero, nessuno può violare il mio corpo, quel corpo che ho donato solo al mio primo vero amore.
Mi aggrappai con tutte le mie forze al ricordo del sogno.
Dopo quella notte smisi di pensare, non volevo capire, non volevo accettare la crudele verità, non volevo rendermi conto di quanto quell’incubo fosse perverso e reale. Spensi il cervello e mi concentrai sul mio sogno, come fosse un film ripetuto a ciclo continuo.
Non parlai per un paio di giorni, ma sembrarono un’eternità, poi finalmente parlai.
«Ho bisogno di farmi una doccia.»
La porta si aprì.
Il tragitto era breve, ma mi parve infinito. Mi trascinavo lentamente lungo il corridoio fissando il pavimento. Quando entrai in bagno mi guardai attorno in cerca di un asciugamano, non trovandolo scostai la tendina della doccia e lo trovai appeso alla maniglia dell’acqua.
Mi spogliai lentamente, con movimenti quasi meccanici, come se fosse una forza esterna a muore il mio corpo, come fossi un burattino.
Volevo lavarmi per spazzare via la sporcizia, purificarmi, lavar via l’orribile realtà che non volevo riconoscere. L’acqua era bollente, ma non me ne importava..
Tornai nella mia cella con i capelli fradici, tanto non avevo nulla con cui asciugarli. Appena entrai, la porta si richiuse alle mie spalle, la finestrella di aprì per poi richiudersi velocemente, era il mio pasto. Non lo guardai nemmeno, l’unica cosa che feci fu sdraiarmi di nuovo.
Passò un po’ di tempo prima che l’uomo si facesse sentire di nuovo, e io non avevo ancora toccato cibo.
«Mangia.»
Ero sdraiata a pancia in giù col viso nascosto tra le braccia, non mossi un muscolo.
«Mangia ti ho detto!»
Insistette lui.
«Devi mangiare, porca troia! Non voglio mica vederti morire di fame!»
Mi voltai di scatto verso la telecamera, la fissai a lungo e poi scoppiai a ridere, una risata nervosa e forzata.
«Tu non vuoi cosa!? Razza di stronzo! Pezzente vigliacco!»
Raccolsi le ginocchia al petto.
«Sono già morta…»
Sussurrai, poi iniziai a piangere con la testa poggiata sulle ginocchia. Strinsi forte i pugni, li strinsi forte da sentir divampare la carne.

Re-Born


Io non ho mai vissuto, ed ora che mi trovo nel mondo reale mi sento perduta, spaesata. Vedo gente che discute, persone che ridono, piangono, si lamentano, tutto ciò mi pare così strano, emozioni a me fin ora sconosciute, eppure così logiche. Sulla logica si basa la mia esistenza, ogni fibra del mio non essere, ogni circuito, ogni tessuto ne fa parte, ma le emozioni non sono contemplate. Fino ad oggi.


Sono nata dalle mani di un uomo, che ho sempre considerato come un padre, limitatamente alla mia concezione della parola stessa, ma egli mi aveva creata per abbattere la sua solitudine. Non sono mai uscita da quella casa, ma non ne sentivo nemmeno la necessità, in quanto vivessi in funzione del mio creatore. Pensavo, reagivo entro limiti prestabiliti, il mio autoapprendimento era limitato alle sue necessità.


Col passare del tempo qualcosa in lui iniziò a mutare, il modo in cui mi guardava era cambiato, nel suo sguardo notavo una luce nuova, ma non capivo ancora di cosa si trattasse. Solitamente quando faceva sesso con me, badava solo alle sue necessità e ai suoi desideri, ma dopo quel giorno cominciò ad essere più affettuoso, mi chiamava per nome, mi stringeva a sé e anche dopo ogni rapporto mi pregava di rimanere sdraiata a letto con lui, carezzandomi i capelli. Spesso lo sorprendevo a fissarmi mentre svolgevo i miei compiti quotidiani, a volte si alzava interrompendo i miei compiti e facevamo sesso, ovunque capitasse.


Si, da quel giorno il suo atteggiamento nei miei confronti mutò radicalmente, io per lui ero un essere umano, ero la sua donna.


Era una fredda sera d'inverno, Logan stava lavorando ad un nuovo chip da integrare al mio sistema neurale, per sviluppare le emozioni in modo più umano, più autonomo. Ero motivo d'orgoglio per lui, quando i suoi colleghi dell'università venivano a trovarlo, passava tutto il tempo ad elogiare le mie caratteristiche e le mie capacità intellettive. Quando il nuovo chip fu pronto decise di testarlo subito, l'integrazione del nuovo componente fu al quanto difficile, ci volle una notte intera per portare a termine il mio aggiornamento. Stanco e terribilmente assonnato, andò subito a coricarsi lasciandomi ai miei compiti quotidiani.


Fin da subito iniziarono a succedermi cose strane, quando vidi Logan chiudere la porta della camera da letto dietro di sé sentii uno strano vuoto all'altezza dell'addome, cucinano mi ferii per errore, la ferita fu il mio primo approccio col dolore, sensazioni sconosciute che non sapevo ancora definire, del tutto nuove, e quel concatenarsi di sensazioni ed emozioni mi fecero paura.
«Allora è così essere umani.»


Anni e anni di studi ininterrotti e costosissimi erano stati necessari alla mia realizzazione, in apparenza sono un perfetto essere umano, ma al mio interno sono una macchina, con componenti sia elettroniche che biologiche, ho tutte le caratteristiche di una donna, ma non le stesse necessità fisiologiche.

Le mie statuine preferite (Part 3)

Rei Ayanami by Shunya Yamashita & Mitsumasa Yoshizawa - Yamato





































Le mie statuine preferite (Part 2)

Cerestia - Shining Wind - Kotobukiya