Ogni essere umano ha il diritto di vivere il proprio sogno...



.:'":. Io Sono KiKi Koy .:'":.
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mercoledì 20 giugno 2012

I'm not your toy


Don't try to convince me, I'm not your toy


You play with my life, pretending that there's nothing wrong.
You keep on wasting my blood and my money, pretending to be strong.


I'm done, I'm done with hearing your annoying voice, smelling your stinky breath.
You death, you liar, you, filthy little beast, you play with my dignity!


Now it's OVER!


Stop playing jokes, start ruling!


凸(`⌒´メ)凸

Il tempo delle lucciole



Capitolo I

L’arrivo



Freddo e buio, solo questo ricordo. Poi una mano, fredda e dalla stretta possente, e gli occhi, profondi e azzurri come il cielo limpido di un giorno senza nubi, una luce penetrante fino alle viscere dell’essere.
«Chi sei? Dove mi trovo?»
Lui non disse una parole, mi sollevò da terra e, tenendomi per mano, mi condusse fuori dalla stanza.
Non vedevo bene, era notte e tutto il cielo era coperto da una fitta coltre di nuvole.
«Che posto è questo?»
«Non ti risponderei nemmeno se lo sapessi.»
Rispose l’uomo, lasciandomi perplessa.
«C’è chi lo chiama 'nulla', chi invece lo chiama 'oblio', ma alla fine il nome non conta. Ci si dimentica di tutto, ma ciò che sconcerta di più e il fatto che Tutto si è dimenticato di noi.»
Strillai, strillai più forte che potei.
«No! Stupido! Mi prendi in giro! Se sono morta dimmelo e non…»
«Guarda che ti sbagli, non sei morta. Peggio, sei stata dimenticata.»
Sentivo il corpo pesante, tanto pesante da sentire la necessità di lasciarmi andare e cadere a terra. Dimenticata.
Già, ma da chi? Chi ero? Da dove venivo?
«Non credere di essere l’unica, sai?
Molte altre persone si trovano in questo luogo: donne, uomini, anziani e perfino bambini, per cui alzati e smettila di piangere. Non sei l’unica, principessina!»
Il suo tono era diverso, più duro, come un rimprovero.
«Noi lo chiamiamo 'Il Dimenticatoio', se vi si entra tanto vale dimenticarsi anche l’esistenza della speranza, perché nessuno è mai riuscito ad uscirne.»
«Perché mi dici questo?»
Gli chiesi afferrandolo per il braccio.
«Per proteggerti.»
Detto ciò, si liberò dalla mia presa e, incamminandosi, mi fece cenno di seguirlo.
Non saprei dire quanto a lungo camminammo, non mi rendevo conto del tempo che passava e non potevo nemmeno capire se era giorno o notte, in quel luogo regnava l’oscurità, né stelle né luna né sole potevano confortare la mia vista perché in quel luogo nulla di ciò a cui ci eravamo abituati esisteva più. L’unica fonte di luce erano delle piccole sfere infuocate che fluttuavano sospese a mezz’aria, ma il chiarore che emanavano consentiva solo una visuale limitata.
«Dove stiamo andando?»
Gli chiesi, ormai stanca di tanto silenzio. Ma non c’era bisogno di nessuna risposta, perché pochi metri più avanti giungemmo all’estremità di un colle, dal quale potei ammirare un paesaggio che mi lasciò senza fiato.
In una valle, nel centro di un’immensa radura, sorgeva un’imponente città, o perlomeno era ciò che sembrava. Grande ed illuminata.
Quando fummo più vicini, mi accorsi che la città non era altro che un’imponente montagna sulla cui superficie erano state scolpite strade, case e perfino dei piccoli giardini. Era uno spettacolo meraviglioso e a dir poco suggestivo, non riuscivo a credere che fosse l’opera di esseri umani, pareva che gli Dei stessi l’avessero scolpita.
«Vieni. Andiamo a casa mia.»
Quelle parole mi diedero uno strano conforto.
Casa? E casa mia dov’era? Quell’uomo che avevo appena incontrato, si comportava con me, a modo suo,  quasi con affetto paterno. Lo guardai con sguardo di bambina. Per qualche strano motivo, sentendo quelle parole, mi lasciai andare e una lacrima mi rigò la guancia.
Ci arrampicammo lungo la parete della montagna, credo che camminammo per un’ora buona prima di raggiungere la dimora dell’uomo. Non che fosse molto in alto, ma da lì si poteva comunque ammirare una bella vista. Le luci delle abitazioni sottostanti e più in là il bosco dal quale eravamo arrivati e le strane sfere incandescenti, ma poi null’altro, il buio impediva allo sguardo di andare oltre.
«È buffo! È da un po’ che stiamo insieme, ma non mi hai ancora detto il tuo nome.»
Sorrisi ingenuamente, aspettandomi la solita risposta che una persona ti da dopo che le domandi il nome.
«Nome? Non ho nome, e neppure età. In questo luogo è inutile.
Ma c’è una cosa che devi sapere, il posto in cui ti trovi ora è l’unica possibilità che hai di sopravvivere.»
Finalmente riuscivo a vedere bene il suo volto sotto la luce delle candele. Non era tanto vecchio, anche se la sua voce era profonda e intrisa di tanta saggezza. Aveva una folta chioma nera, lineamenti ben marcati, le labbra sottili e seducenti, gli occhi profondi e scuri, con una corona più chiara intorno alla pupilla. Rimasi ipnotizzata ascoltandolo parlare.
«Non siamo in molti a vivere in questa città, almeno in questi ultimi tempi. Prima eravamo molti di più. Tante persone però tentarono la fuga, ma finirono col perdere ciò che rimaneva di loro stessi. Ci siamo dati dei nomi per non dimenticarci l’uno dell’altro, il tempo non conta più. Come ti vedi ora ti vedrai anche in futuro, se così lo si può chiamare.
Anche quello ci è stato portato via. Non abbiamo la possibilità di invecchiare, quindi di morire. Scompariamo, quello si. Se anche qui le persone ci dimenticano, finiamo con lo scomparire, ma non del tutto.
Vedi quelle luci, quelle che sembrano tante lucciole? Sono le persone che hanno tentato di scappare, quelle di cui ti ho accennato prima. Ora non sono altro che spiriti perduti, anonimi, destinati a vagare nell’oscurità.»
«Ho capito.»
Dissi, inarcando le sopracciglia.
«Comunque, non mi hai ancora detto il tuo nome.»
«Oh! Scusa, hai ragione, sono un vero maleducato.»
Mi rispose alzandosi dalla sedia e facendo un profondo inchino.
«Il mio nome è Hariien , significa “colui che illumina il cammino ”, benvenuta a Daharck, la città del buio perenne.»
«Molto lieta di fare la tua conoscenza! Io sono…io sono…
Già, come mi chiamo?»
«Beh, col tuo permesso, io ti chiamerei Kalindah , “luce che risplende”. Adeguato direi, ad una ragazza bella come te non potrebbe essere più adatto.»
Arrossii sentendogli dire quel complimento.
Subito dopo uscimmo dalla casa, Hariien volle assolutamente presentarmi al resto degli abitanti, un centinaio in tutto, non mi fu per nulla facile apprendere i loro nomi. Ma ci fu una ragazza che mi colpì particolarmente e il suo fu il primo nome che riuscii ad inchiodare nella mente:Demethrian , “fiore di primavera”.
Era una ragazza davvero meravigliosa, aveva una lunga chioma dorata e ondulata, i suoi occhi verdi brillavano di un’intensa luce che faceva dimenticare le proprie pene a chiunque la guardasse e la sua voce era soave e seducente. Era, però, dotata anche di un bel temperamento, determinata e testarda, ma anche molto gentile e ben disposta nei confronti di chiunque si trovasse in difficoltà.
Non ci volle molto tempo per scoprire questi diversi aspetti del suo carattere, era una ragazza aperta e non aveva timore di mostrare i suoi sentimenti, al contrario di me, che spesso ero schiva, col brutto vizio di nascondermi sotto tante maschere, che mi portavano inevitabilmente ad allontanarmi dagli altri.
Lei sembrò subito comprendermi, così, anche quand’ero triste e di cattivo umore, lei non si spaventava e non scappava come facevano le altre persone, ma rimaneva accanto a me e trovava sempre il modo di farmi sorridere. La sua infinita pazienza fece nascere una bellissima amicizia tra noi.
A Daharck le giornate, se così le si poteva chiamare, si passavano come meglio si poteva, c’erano i bambini che giocavano tra loro, o si facevano raccontare delle storie,  naturalmente di pura fantasia, dagli abitanti più anziani. Gli uomini lavoravano nei campi e nel tempo libero sedevano attorno al fuoco fumando la pipa e discutendo di questo e quell’altro. Le donne, invece, passavano gran parte della giornata a scrivere i diari sui quali venivano appuntate tutte le attività giornaliere di ogni abitante, il loro nome, i giorni di vita in città, ecc. Era una sorta di memoriale, era un modo per non dimenticarsi gli uni degli altri e sapere esattamente quale era il ruolo di ciascuno di noi in questa piccola società.
Una volta alla settimana si teneva un’assemblea per stabilire chi sarebbe stato a capo della città per i seguenti sei giorni, così, spiegavano loro, tentavano di evitare l’eventuale nascita di rivalità. Quella settimana il comando venne affidato proprio a me. Mi feci prendere un po’ dal panico quando dissero il mio nome, non avevo la più pallida idea di come si comportasse un capo e delle mansioni che gli spettavano, Hariien non mi aveva mai spiegato in modo esauriente cosa un capo doveva esattamente fare, pensava che fosse inutile spiegarmelo subito dato che ero appena arrivata e che era poco probabile che venissi eletta fin da subito, invece si sbagliava.


[Un vecchio vecchio vecchio racconto che scrissi ai tempi delle superiori, mai terminato.]